L’esposizione – curata da Paola Antonelli – cerca di rispondere a
questa domanda: Come possiamo restituire alla sfera naturale quanto in
questi secoli, e in particolare negli ultimi decenni, le è stato
sottratto?
Il progetto coinvolge esperti e scienziati da tutto il mondo, aprendo la
riflessione non solo alla comunità internazionale del design e
dell’architettura, ma anche ad artisti e matematici, biologi e politici
in una fusione tra discipline ormai necessaria.
Paola Antonelli incanta con il suo entusiasmo e la sua energia, anche perché l’esposizione è molto concettuale e le spiegazioni dono molto gradite. Si entra nell’impluvium dove due maxi schermi mostrano foto aeree in una sorta di prima e dopo l’intervento dell’uomo, che spesso ha lasciato ferite importanti. The Room of Change è un’installazione composta da una sorta di arazzo di dati, che illustra come molteplici aspetti del nostro ambiente siano cambiati nei secoli passati, come stiano ancora cambiando e come probabilmente cambieranno in futuro.
La mostra comprende un centinaio di progetti degli ultimi tre decenni provenienti da tutto il mondo: esempi di design, architettura e arte definita “ricostituente”. Raccolte di semi mantenute in sicurezza allo Svalbard Global Seed Vault, fiori estinti di è stato ricreato il profumo, pescatrici di perle e tessitrici di bisso, sarti di alghe e interpreti dei canti delle balene si susseguono, raccontando la sperimentazione dei molti artisti e scienziati.
Il cambiamento climatico e le temperature in aumento sono affrontati
anche da una selezione di leggerissimi abiti e cappelli pensati per la
protezione solare limitando l’uso di creme, responsabili di ingenti
danni a fauna e flora marina.
La siccità di molti paesi africani viene aiutata da una tanica per
l’acqua a forma cilindrica. Bambini e donne (che solitamente camminano
per chilometri per portare l’acqua al villaggio) potranno portarne un
quantitativo maggiore, facendo decisamente meno fatica. Una macchina che
scioglie le molte lattine di alluminio che consumiamo durante la
giornata, le fonde e crea sgabelli e sedie. Ecco il design
ricostituente.
Si esce da questa sezione, salutati da un tenerissimo abbraccio di
una coppia di uomini primitivi. Non capiamo se vecchissimi o solo
primordiali, che ci riportano ai sentimenti di basa (l’amore) e alla
sopravvivenza sul pianeta.
I paesi partecipanti sono 30, provenienti da tutti i continenti e
offrono sfaccettature complesse delle tradizioni culturali in termini di
temi, visioni e prospettive future.
All’interno della XXII Triennale spicca anche un padiglione davvero speciale, La Nazione delle Piante, un’installazione immersiva basata sulle teorie di Stefano Mancuso – curatore del progetto – tra le massime autorità mondiali nel campo della neurobiologia vegetale.
Viene subito introdotto il concetto di plant blindness (cecità vegetale), mostrando un’enorme foto di una foresta in cui il 90% dei visitatori vede solo il felino tra le foglie, come se il genere umano desse talmente per scontato il ruolo del mondo verde, da cancellarlo dalla sua percezione.
Il curatore si definisce portavoce del mondo vegetale e spiega che l’area da lui curata è «un’esposizione delle possibili soluzioni vegetali». Ci sono video che mostrano la competizione o la cooperazione tra due piante di fagiolo, informazioni sull’accelerazione del polline del Cornus Canadensis (24mila m/s²), una spiegazione del Populus Tremuloides, detto anche Pando, che è «una pianta così longeva che la sua vita abbraccia quasi l’intera storia dell’umanità». C’è anche un dato secondo il quale le piante costituiscono l’81,1 per cento del peso della materia vivente e gli esseri umani solo lo 0,01.
Se ne desume che sia necessario guardare il mondo vegetale in un modo nuovo, usandolo non solo per quello che hanno da offrire, ma per quello che possono insegnare all’umanità.
Una visita a questa mostra non basta. Sono troppi i temi e siamo troppo coinvolti. Broken nature insegna a tutti – cittadini del pianeta – che piccoli gesti della nostra vita quotidiana possono fare la differenza “ogni individuo è un piccolo timone – diceva Richard Buckminster Fuller negli anni ’60 – se manovrato nel modo giusto può spostare una petroliera”.
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